Cosa comporta l'uso massiccio di Chat GPT e degli altri strumenti di intelligenza artificiale basati sui modelli linguistici di grandi dimensioni? Quale è il loro impatto sulle nostre attività cerebrali? Il verdetto dei diversi studi condotti in questi ultimi mesi è unanime: ChatGPT ci sta rendendo stupidi.
Infatti, gli utenti che hanno utilizzato in modo costante ChatGPT hanno mostrato tassi molto più bassi di attività neurale nelle aree del cervello associate soprattutto a due specifiche funzioni: creazione e attenzione. Inoltre, questi stessi utenti sottoposti ai test hanno ottenuto punteggi più bassi nella capacità di ricordare i contenuti dei loro stessi saggi, dunque, anche la memoria si mostrerebbe piuttosto compromessa. Stando a quanto emerso, dunque, l'intelligenza artificiale sembrerebbe avere un impatto davvero negativo sulla nostra d'intelligenza, quella umana, impigrendo il nostro cervello e rendendoci meno brillanti, quasi intorpiditi da questa spinta a delegare le attività a un chatbot.
Vediamo di capirci qualcosa di più e, prima d'iniziare una campagna di demonizzazione degli strumenti AI e di farci sopraffare dall'ansia da allarmismo tecnofobico chiediamoci: la stiamo davvero usando al meglio l'intelligenza artificiale? Perché forse la differenza sta tutta nella risposta a questa domanda.
Il primo studio sul tema è quello del MIT di Boston che ha coinvolto 54 persone divise in tre gruppi: il primo ha scritto dei saggi brevi senza nessun aiuto "artificiale" esterno, il secondo ha potuto utilizzare i motori di ricerca, il terzo si è avvalso di di Chat GPT. Risultato? “L’elettroencefalogramma ha fornito prove solide del fatto che i gruppi che hanno usato Llm, quelli che hanno impiegato i motori di ricerca e quelli che hanno usato solo il cervello hanno mostrato schemi di attività neurale significativamente differenti, che mostrano strategie cognitive divergenti” - si legge nello studio. “L’attività cerebrale diminuiva sistematicamente all’aumentare del supporto esterno: il gruppo ‘solo cervello’ mostrava le reti più forti e diffuse, quello con il motore di ricerca un coinvolgimento intermedio, mentre l’assistenza dell’Llm generava l’attività cerebrale più debole”.
Il secondo studio condotto dalla Swiss Business School di Zurigo ha chiesto a 666 partecipanti di indicare con quale frequenza impiegassero l’intelligenza artificiale e quanto si fidassero di essa. Ottenute le informazioni, i partecipanti sono stati sottoposti a test per la valutazione del pensiero critico. Come era abbastanza prevedibile, i bulimici dell'AI hanno ottenuto punteggi più bassi rispetto agli altri.
I due studi che abbiamo citato rappresentano solo una piccola parte di quelli che sono stati fatti sul tema dell'utilizzo dell'AI. Più ci si affida agli strumenti di intelligenza artificiale, come Chat GPT, per esempio, più si nota un decadimento dell'attività cerebrale, del pensiero critico e una diminuzione dell'abilità creative e mnemoniche.
Dunque, lasciate ogni speranza, o voi che entrate? Non proprio, perché come spesso accade le scelte drastiche non sono mai una soluzione auspicabile, meglio muoversi con cautela e optare per una visione d'insieme che non demonizzi nulla e, al contempo, sia critica verso atteggiamenti troppo semplicistici. Partiamo dalla natura stessa, etimologica dell'AI. L'intelligenza artificiale è uno strumento, un mezzo che ci consente di compiere un'azione o che ci aiuta e ci supporta nel farlo. Ecco, proprio nel suo più intrinseco significato sta il ruolo che dobbiamo attribuirle.
I linguaggi di grandi dimensioni non devono sostituirsi a noi e alla nostre attività cerebrali, ma semplicemente aiutarci, un po' come fa la calcolatrice con i conti o alcune app, per esempio, quelle che ci indicano l'itinerario da seguire. Questa è anche la conclusione a cui sono arrivati anche gli studi che abbiamo esaminato in precedenza. “I risultati suggeriscono che introdurre gli strumenti di intelligenza artificiale in un secondo momento, dopo una fase iniziale di sforzo autonomo, può favorire un maggiore coinvolgimento e una migliore integrazione neurale" - dicono dal Mit di Boston - "I marcatori Eeg corrispondenti indicano che questa sequenza potrebbe essere neurocognitivamente più ottimale rispetto a un utilizzo costante dell’AI fin dall’inizio”.
Dunque, la differenza sta tutta tra l'uso, corretto e utile, dell'intelligenza artificiale e il suo abuso, antiproducente e lesivo per le nostre normali funzione cerebrali. Questo non significa derubricare timori legittimi con troppa superficialità o non tener conto di plausibili preoccupazioni, conseguenza dell'avvento di una nuova tecnologia capace di un impatto così pervasivo sul lavoro e sulla società.
L'intelligenza artificiale generativa, un po' come al tempo sono stati i motori di ricerca deve essere concepita e impiegata in modo complementare alla nostra, mai in sostituzione, onde evitare che le nostre facoltà possano in qualche modo abituarsi al non pensare e atrofizzarsi per l'inedia.
Resta il fatto che per quanto sviluppata, migliorata e allenata, l'AI non potrà mai padroneggiare abilità, quali il pensiero critico o l'astrazione, che sono peculiari delle sinapsi umane, sinapsi che non dobbiamo dimenticarci di alimentare giorno dopo giorno.
La Redazione